“The woman in gold”, un film di Simon Curtis che racconta la vera storia di Maria Altmann, signora austriaca di fede ebraica costretta ad emigrare in California in seguito all’entrata dei Nazisti a Vienna, per sfuggire all’Olocausto. Negli anni novanta la Altmann, sostenuta dall’avvocato Randol Schoenberg, intraprese una guerra giudiziaria contro il governo austriaco al fine di recuperare il ritratto di Adele Bloch-Bauer, realizzato da Gustav Klimt e appartenuto a sua zia prima di essere confiscato dai nazisti. Il continuum della trama descrive Maria Altmann come un’anziana signora dal British humour, dolcemente incurante delle formalità proprie delle aule dei tribunali e della vita. Tale linea narrativa è interrotta da ampi flashback che mostrano la protagonista durante la sua gioventù, al tempo dell’invasione tedesca. Una giovane donna, dilaniata dal dolore e dall’angoscia che le provoca il sacrificio delle proprie radici, perpretato per raggiungere la libertà. Così i sorrisi carichi di dolce ingenuità, che le adornano il viso invecchiato, non sono più simbolo di dolce senilità ma espressione di forza e tenacia proprie di chi, superando la sofferenza, è tornata alla vita. Helen Mirren ha interpretato al meglio ogni sfaccettatura di questo complesso personaggio, valorizzandolo grazie al suo talento da fuoriclasse. Si tratta di un film che parla di radici, di come sia stato doloroso spezzarle, di come sia motivante e sorprendente riscoprirle, di come sia coraggioso recuperarle. È un buon film dal significato profondo. Tuttavia la scena finale merita una nota di demerito dato che, pur simboleggiando con coerenza il concetto di riconciliazione con il passato, somiglia troppo a quella di “Titanic”. La prossima volta, un po’ di fantasia in più.