Il Popolo della Libertà nacque dall’unione, o meglio dall’accorparsi, dei due principali partiti che avevano costituito, in precedenza, l’asse portante della Casa delle libertà: Forza Italia e Alleanza Nazionale. Seppur questi due partiti, insieme ad altri minori, avessero già sperimentato forme anche molto strette di collaborazione, fino a federarsi in occasione delle tornate elettorali sotto un unico simbolo, è nella XVI legislatura che l’idea di un partito unitario del centrodestra si è materializzata, con il congresso fondativo svoltosi a Roma fra il 27 e il 29 marzo 2009. Le circostanze, rispetto ai tentativi precedenti, tutti falliti, di costituire un partito unitario durante la legislatura del Governo Prodi (che ogni giorno doveva cadere ma che non cadeva mai), questa volta sembravano favorevoli. La vittoria elettorale del centrodestra nel 2008 era senza dubbio un elemento importante. Eppure, la genesi ideale del partito parve per certi versi tardiva e per altri versi prematura. Fino a mostrare tratti di “partito non-partito”. Fin da subito, infatti, si ebbe la sensazione di essere dinanzi ad una aggregazione più simile ad un comitato elettorale che non ad un partito vero. Era un esercito con un condottiero indiscusso, ma con fin troppi generali al suo fianco. Non la via Pal, ma Palazzo Grazioli, il suo quartiere generale. Dove però ci si riuniva al modo di quei ragazzi ungheresi al comando di Boka, i vari Geréb, Kolnay, Barabás, Csónakos, Csele, Weisz, Leszik, Richter e Nemecsek, tutti con un grado fra sottotenente e capitano, ad eccezione di Nemecsek, l’unico soldato semplice. Erano i ragazzi della via Pal, appunto. Un partito che si voleva senza correnti, considerate “metastasi” da Berlusconi, in realtà scaturiva da una suddivisione al suo interno addirittura matematica: il 70 per cento degli incarichi spettavano agli ex Forza Italia, mentre il restante 30 per cento era appannaggio di quelli provenienti da Alleanza Nazionale. Mancavano personaggi che potessero essere di coesione, non solo per la mancanza del compianto “ministro dell’armonia” Pinuccio Tatarella, ma proprio perché non si volevano figure forti e facilmente riconoscibili di raccordo fra i vertici del movimento e la cosiddetta base. La nascita del “partito unico”, a maggior ragione con le modalità appena descritte, era certamente favorita dal sistema elettorale vigente nel 2008, che è poi lo stesso sistema elettorale con cui è stato eletto l’attuale Parlamento. Un sistema elettorale che da un lato implicava il bipolarismo, considerato il ragguardevole premio di maggioranza previsto alla Camera per la coalizione vincitrice e, dall’altro, considerata la lista bloccata dei candidati, con designazione effettuata dai vertici, evocava quella forma di comitato elettorale che avrebbe di fatto assunto il PDL. Grazie a questo sistema sarebbe stato possibile far eleggere anche personalità che in realtà poco avevano a che fare con la vita vissuta del partito e al tempo stesso far vivere il partito come “corpo separato” mai pienamente integrato nella vicenda istituzionale di Stato, Regioni, Comuni. Non che questa, si badi, sia una esclusiva del PDL. (Gli “indipendenti” eletti nelle liste del PCI cosa erano, sotto questo aspetto, se non l’anticipazione del Porcellum?). Se, come detto, la vittoria elettorale alle politiche del 2008 era stata terreno favorevole per la successiva nascita del PDL, non si può dire altrettanto per le elezioni regionali del 2010. Pur con la vittoria in regioni difficili, nonostante il caos che si verificò nella presentazione di alcune liste in Lombardia, e soprattutto nel Lazio con la clamorosa esclusione della lista del PDL da Roma e provincia, le divergenze all’interno del partito, soprattutto fra Berlusconi e Fini, emersero in pieno. Fini non giocò per vincere e già durante la campagna elettorale si tenne volutamente in disparte (motivando questo disimpegno come necessaria terzietà che deve avere un presidente della Camera). Gli premeva non contaminare la sua immagine con quella di Berlusconi in vicende giudiziarie, scandali, provvedimenti sulla giustizia, quelli fatti e quelli solo annunciati. La situazione iniziò decisamente a degenerare quando il presidente della Camera, scontento della politica portata avanti dal PDL per lui appiattita sulle posizioni della Lega Nord, arrivò a minacciare di dar vita a gruppi parlamentari autonomi. La polemica giunse al 22 di aprile sotto i riflettori delle telecamere. Fini e Berlusconi si scontrarono frontalmente durante la direzione nazionale del PDL. Il presidente del consiglio replicò alle contestazioni del presidente della Camera, rilevando che “comunque un presidente della Camera non deve fare dichiarazioni politiche. Se le vuoi fare devi lasciare la carica, ti accoglieremo a braccia aperte”. Fu l’inizio della fine. “Perché sennò che fai, mi cacci?”, gli replicò Fini. La direzione nazionale, nella quasi totalità dei suoi membri, era dalla parte di Berlusconi mentre solo meno di una dozzina risultarono ‘finiani’. Lo stesso dicasi per la l’ufficio politico, tenutosi il successivo 29 luglio 2010, che con 33 voti su 36 sancì l’incompatibilità di Fini con il PDL e chiese il deferimento ai probiviri del partito di alcuni parlamentari finiani che più si erano esposti contro il presidente Berlusconi. Ne derivò la costituzione di due gruppi parlamentari di “Futuro e libertà per l’Italia” (questo il nome della nuova formazione finiana), gruppi autosufficienti numericamente e quindi del tutto autonomi dal PDL. Il 2 agosto 2010, infatti, i senatori Baldassarri, Contini, De Angelis, Digilio, Germontani, Menardi, Pontone, Saia, Valditara e Viespoli abbandonarono il gruppo del PDL. Quella finiana non fu l’unica diaspora. Anche Gianfranco Micciché e i suoi lasciarono il PDL per dar vita ad un altro partito, di ispirazione sudista per controbilanciare all’interno della coalizione il peso della Lega Nord e formarono Forza del Sud, (che si sarebbe poi presentata alle successive elezioni politiche come Grande Sud), avendo riunito intorno a sé altri movimenti a vocazione localistica. Senza però che lo stesso Miccichè abbandonasse ruolo e rango di viceministro di Tremonti. In Parlamento, però, non si ebbe fretta ed il governo Berlusconi riuscì a superare alla Camera lo scoglio della mozione di sfiducia del 14 dicembre 2010, moz
ione sostenuta dall’opposizione e da FLI. Al Senato i numeri erano ancora dalla parte di Berlusconi. La spallata finiana contro il presidente del consiglio non era riuscita e nei “traditori” incominciarono i ripensamenti. Il 2 marzo si costituì il gruppo di “Coesione Nazionale” guidato da Pasquale Viespoli che aveva lasciato il giorno prima FLI insieme ad altri suoi colleghi. Il gruppo CN raccoglieva dunque quei delusi che avevano lasciato precedentemente il PDL per andare all’opposizione e che rientrarono poi nuovamente in maggioranza, così come fece il gruppo dei cosiddetti “responsabili” (alla Camera confluiti nel gruppo “Popolo e Territorio”). Il partito arrivava così a un banco di prova importante, le elezioni amministrative svoltesi nel maggio 2011, ritmate dalle solite inchieste giudiziarie e clamori scandalistici. Questa volta, però, ad essere sotto l’occhio delle procure e dell’opinione pubblica non erano più esponenti, seppur di peso, del PDL come Scajola, Verdini, Dell’Utri, Brancher, Cosentino, ma lo stesso presidente del PDL in prima persona accusato di concussione e prostituzione minorile per il caso Ruby. Era ampiamente prevedibile che il PDL uscisse dalle urne ridimensionato e decisamente colpito, perdendo in tutte le maggiori città. Sconfitta non indolore soprattutto a Milano dove al ballottaggio il sindaco uscente Letizia Moratti si vedeva distaccata di 10 punti dal rivale Giuliano Pisapia. Prima ripercussione di queste sconfitte furono le dimissioni di Sandro Bondi da coordinatore del partito. Il partito, da quel momento, iniziava una fase nuova che portò l’Assemblea del PDL ad eleggere con votazione plebiscitaria, il 1º giugno 2011, Angelino Alfano come segretario politico. Era una scelta fino ad allora sconosciuta e persino incomprensibile in un partito berlusconianamente e rigorosamente carismatico. Il nuovo corso, però, non fermava la fuga di deputati e senatori del PDL dai rispettivi gruppi parlamentari. Al Senato lasciava Carlo Vizzini per passare al PSI, mentre ancora una volta era alla Camera che si registravano le defezioni più preoccupanti per i margini risicati della maggioranza di governo. Prima Santo Versace e Giancarlo Pittelli, poi Giustina Destro e Fabio Gava e poi ancora Isabella Bertolini, Giorgio Stracquadanio, Roberto Antonione, Alessio Bonciani, Ida D’Ippolito Vitale e Gabriella Carlucci. Questa emorragia di parlamentari preludeva alla dissoluzione, o quanto meno, alla dissolvenza dell’esecutivo, dove Berlusconi e Tremonti erano spesso divisi. Alla seconda votazione per l’approvazione del Rendiconto generale dello Stato non si arrivò a quota 308 deputati. Il governo ormai non aveva più la maggioranza dei componenti di tutte e due le Camere e il 12 novembre 2011, dopo l’approvazione della Legge di stabilità 2012, Berlusconi si dimise da presidente del consiglio. A guidare il governo venne chiamato Mario Monti, già commissario europeo ed appena nominato senatore a vita da parte del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano. La scelta di appoggiare il “governo tecnico” non fu indolore per il PDL soprattutto per due motivi. Il primo motivo è che all’interno dei gruppi parlamentari erano diverse le voci critiche verso il nuovo esecutivo. C’è chi non ne apprezzava i provvedimenti messi in campo visto che la crisi economica peggiorava, e chi contestava la natura di un governo che si reggeva su un’anomala coalizione per cui il PDL era alleato del suo più accreditato avversario, il PD, oltre che dell’UDC e del FLI del presidente Fini. Anche gli elettori del PDL non gradirono affatto tale alleanza e l’appoggio al governo “tecnico” e ne diedero dimostrazione plastica in occasione delle elezioni amministrative del 2012. Quest’ultime segnarono un calo vistosissimo in termini di voti e di amministrazioni conquistate. Anche perché il PDL e Lega Nord correvano separatamente. La loro storica alleanza era terminata con la nascita del governo Monti, con il Carroccio all’opposizione. E’ a Sud, però, che si registrarono i risultati più negativi con un PDL che perse il comune di Palermo, storica roccaforte del centrodestra, e con elezioni regionali siciliane che videro vincitore il candidato di PD e UDC Rosario Crocetta. Il malumore dei parlamentari del PDL cresceva e chi già nei mesi addietro aveva mostrato disappunto, ora usciva allo scoperto lasciando il partito (lo fecero alcuni ex Forza Italia che diedero vita all’associazione Italia Libera). Nel partito a confusione si sommava altra confusione quando venne deciso di sperimentare, (sarebbe stata la prima volta per il PDL) lo strumento delle primarie per decidere il candidato premier e il leader della coalizione di centrodestra in vista delle elezioni del 2013. Se il centrosinistra aveva dimostrato grandi capacità organizzative (le stesse del vecchio P.C.I.) arrivando a scegliere, in Pierluigi Bersani, il candidato della coalizione PD, SEL e Centro democratico di Tabacci, lo stesso non avvenne per il PDL. Le primarie diventarono momento di scontro fra chi le voleva e chi invece le osteggiava, fino a trasformarsi in una sorta di fiera delle vanità della peggior “società civile”, con la presentazione di troppe ed improbabili personalità. Se già le primarie sembravano complicate e difficili, la titubanza, per non dire avversione, di Silvio Berlusconi le rendevano ancor più complicate e difficili. E infatti non si svolsero. Ai primi di dicembre Berlusconi annunciò la sua ridiscesa in campo: sarebbe stato dunque lui il candidato del centrodestra, sfidante di Bersani nella corsa per Palazzo Chigi. Da questa decisione ne scaturì immediatamente un’altra: il PDL non diede più sostegno al governo Monti facendogli mancare, di fatto, la maggioranza. Questi due avvenimenti, succedutisi nel giro di pochi giorni, ebbero ripercussioni all’interno del PDL. Da un lato c’erano gli scontenti per le mancate primarie. Erano soprattutto quelli di provenienza AN, ma non solo, che con Giorgia Meloni, Ignazio La Russa e Guido Crosetto in testa decisero di lasciare il partito e di fondarne un altro: Fratelli d’Italia – Centrodestra nazionale. Al Senato questa nuova formazione politica riuscì a raggiungere una consistenza numerica tale da costituire un autonomo gruppo parlamentare che sarebbe risultato, a fine legislatura, di 12 componenti (con il senatore Filippo Berselli che in un primo momento ne aveva fatto parte salvo poi far ritorno, dopo qualche giorno, al gruppo del PDL). Ci furono anche altri che si allontanarono dal partito, questa volta non per la vicenda delle primarie, ma per il ritiro del sostegno al governo Monti: se alla Camera è stato Franco Frattini la voce più critica di questa scelta e al Parlamento Europeo quella di Mario Mauro, al Senato è stato soprattutto Beppe Pisanu a dichiararsi favorevole all’ipotesi di continuare con Monti e il suo governo, in totale disaccordo quindi con il PDL. Alle recenti elezioni, al fianco del tradizionale simbolo del PDL, gli elettori di centrodestra questa volta ne hanno trovato altri, fra i quali quelli dei partiti costituitisi proprio per effetto delle scissioni dal PDL. C’è chi, come Monti, immaginava una sonora sconfitta per il PDL e per Berlusconi, sconfitta che avrebbe scompaginato ulteriormente e definitivamente il partito e segnato la fine politica del suo leader. Non è avvenuto, anzi. Nei suoi limiti di partito non-partito con fin troppi personalismi, con correnti non costituite formalmente, ma non per questo meno evidenti, come comitato elettorale il PDL il 24 e 25 febbraio scorsi ha dimostrato di esistere. Non senza orgoglio, come in combattimento avevano i ragazzi della via Pal (dal comandante Boka al soldato Nemecsek). Non senza onore, contro le furbizie bersaniane, le opacità montiane, le volgarità grilline. Ora però la stagione del comitato elettorale per Silvio presidente (una storia gloriosa, ma non una storia infinita) dovrà per forza di cose cedere terreno a quella della costruzione di un partito politico vero e serio. Questo è il tempo di Alfano segretario: un partito da guidare, non delle primarie casalinghe, dovrà essere il suo percorso in questa legislatura.
di Luigi Compagna