Regia affidata nuovamente a Colin Trevorrow che ha l’onere di guidare una sceneggiatura monstre che ha il compito di soddisfare i fan, congedarsi con un episodio all’altezza e riservare lo spazio dovuto ai molti personaggi vecchi e nuovi che la popolano.
È forse inevitabile che questo sfoci in more of the same, in tutte le salse possibili: reiterazione delle sequenze più amate e degli scontri che hanno un vincitore già scritto. L’impossibilità di fornire un sequel all’altezza dell’originale dal punto di vista emozionale e iconico si traduce in un processo che assomiglia alla clonazione, secondo l’ipertrofica applicazione del concetto del mainstream cinematografico attuale. E in questo senso è indicativo che l’unico elemento di reale innovazione e di simbolica metafora sul franchise stesso sia costituito da una sorta di partenogenesi, attuata tanto dai dinosauri in natura che dagli scienziati in laboratorio.
L’imperativo è replicare, anche senza bisogno di una cooperazione per farlo. Stupirsi quindi se il T-Rex alla fine vincerà l’ennesimo scontro tra predatori apicali, dopo che questo è avvenuto in tutti o quasi gli episodi della saga, è impossibile, almeno quanto immaginare che non ci sia un’inquadratura thrilling con un dinosauro inquadrato in un cerchio, atta a richiamare visivamente il brand che già fu di Jurassic Park
Brandizzazione e reiterazione sono le parole d’ordine di un gargantuesco episodio-summa, sulle cui spalle gravano esigenze di fan service così ingombranti da irrigidire la sceneggiatura fino a renderla prossima a quella prodotta da un algoritmo.