FENOMENOLOGIA INTERISTA
Carissimi nerd. Come qualsiasi tifoso dell’Inter provo un gusto irrefrenabile e spasmodico per l’autolesionismo. Per questo motivo, oggi mi cimenterò nell’esercizio masochista per eccellenza di ogni tifoso interista che si rispetti. Con la guida spirituale del Chino Recoba, che oggi sarà il mio Virgilio, mi immergerò nei ricordi per capire chi e che cosa ha reso una parte della mia vita totalmente nerazzurra.
In principio fu il Fenomeno. Quando il calciatore più forte di tutti i tempi mise piede alla Pinetina per la prima volta ero solo un cucciolo di tre anni. Fonti fiduciarie riferiscono che all’ epoca ero un rompicoglioni professionista, uno sfrangi palle vero. Mi chiedo se in tanti anni sia cambiato qualcosa. Comunque, nel ’98, avevo tre fissazioni: Mio nonno, primo amore della mia vita, Marco Pantani, detto il Pirata, e Luis Nazario da Lima, un ventunenne brasiliano con indosso una maglia neroazzurra della Umbro che era solito prendere palla a centrocampo, girarsi e puntare con una potenza devastante le difese schierate . Ronaldo aveva una tecnica di dribbling irripetibile supportata da un’accelerazione nel breve mai vista prima e mai rivista dopo. Nessun difensore era in grado di fermarlo senza commettere fallo. Inoltre era il sosia spiccicato di mio padre, con quella pelata da monaco tibetano, gli occhi a mandorla e gli zigomi alti. Forse nel mio subconscio vedevo mio padre con la maglia dell’Inter . Ma certo, papà usciva di casa la mattina e tornava la sera. Diceva che sarebbe andato al CIS di Nola per sbrigare delle pratiche in ufficio. Era palesemente una copertura. In realtà andava a prendersi gioco di Maldini e Costacurta in quel di San Siro. Poi la sera tornava a casa con gli occhiali. Papà sta a Ronaldo come Clark Kent sta a Superman. Ma i sogni di un tifoso in erba si sgretoleranno pian piano, assieme al tendine rotuleo del Fenomeno . In quel periodo, a pensarci bene, anche papà ebbe un paio di operazioni al ginocchio. Coincidenze? Io non credo.
Il Fenomeno rimarrà sempre il migliore di tutti, colui che mi ha fatto innamorare del calcio prima e dell’Inter poi. Tiferò per lui anche quando passerà ai cuginetti del Papi Berlusca. Dal 2004 al 2007 ho vissuto il momento più intenso e doloroso della mia passione nerazzurra. Sono gli anni d’oro dell’unica persona che io abbia davvero idolatrato: Adriano Leite Ribeiro, detto l’imperatore. Non era tecnico e veloce come Ronaldo, e non aveva oggettivamente un senso tattico spiccato. Ma io ero un bambino di dieci anni e gli ordigni fatti brillare dal suo sinistro mi regalavano la felicità. A scuola non andavo bene e i bambini facevano i bulletti perché ero un tipetto gracile. Adriano era la mia rivincita, la sua potenza era la mia rivalsa. In quel momento della mia vita ero ciecamente convinto che sarebbe riuscito a spostare le montagne e, ingenuamente, a regalarmi la Coppa dei Campioni. L’Imperatore non è stato solamente il mio calciatore preferito, è stato l’unico supereroe in cui io abbia veramente creduto.
Christian Vieri è la cosa più brutta e goffa che io abbia visto su un campo da calcio. Speravo sempre che l’azione non passasse per i suoi piedi. Era sgraziato come un ippopotamo e la sensazione che mi dava quando toccava il pallone, con quell’andatura fiacca e ingobbita, era la stessa che ti dà il virus che impalla il PC. Tu scorri il mouse e il computer risponde sempre con quei tre-quattro secondi di ritardo. Quindi scorri nuovamente, e il computer risponde all’input precedente. Ecco, questo era Christian Vieri.
Con Zlatan Ibrahimović ho sempre avuto un rapporto d’amore e odio. Da un lato mi faceva vincere i campionati, e quindi si godeva come ricci, soprattutto quel pomeriggio a Parma. Dall’altro era chiara la percezione che in Europa non avrebbe mai risolto nemmeno un solitario. Dominava soltanto contro Chievo, Palermo, Cagliari e le altre squadre italiane, in un momento in cui non era nemmeno troppo soddisfacente, dato che il livello del campionato era radicalmente calato dopo “Calciopoli”. Questo lo faceva assomigliare un sacco ai bulletti che se la prendevano con me. In fondo l’ho sempre disprezzato.Non riesco a scindere gli uomini del Triplete dal collettivo che hanno rappresentato.
Eravamo una corazzata razionale. Un cingolato preciso. Il livello medio della squadra era alto, ma non c’era nessun Fenomeno, nessun supereroe trascinatore. Quando alzammo la Coppa dei Campioni dopo quarantacinque anni provai la stessa sensazione che Agassi sentì quando vinse il suo unico Wimbledon, nella finale del 1992 contro Ivanisevic . La soddisfazione per una vittoria non è forte come la delusione di una sconfitta. Sarò sempre grato agli uomini del Triplete, ma il cuore avrebbe preferito che a portarmi in cima all’Europa fosse stato il mio Imperatore.