Carissimi amici , vi è mai capitato di sperimentare purissimi momenti di noia ascoltando le banalissime dichiarazioni di calciatori che parlano di umiltà e normalità?
Poiché la domanda è retorica, passiamo subito ai relativi approfondimenti di sorta: innanzitutto bisogna specificare che questi atteggiamenti politicamente corretti rispondono, in parte, a un evidente paradosso sul quale poggia l’essenza dei grandi campioni. Si tratta infatti di pochi eletti che hanno un talento, o, in alternativa, una forza di volontà evidentemente fuori dall’ordinario, ma che devono restare molto diligenti per far si che queste doti straordinarie diano i loro grandiosi frutti. Ma, al di là di questo, esiste anche una sorta di modello comunicativo “old school ” che i grossi calciatori seguivano religiosamente davanti alle telecamere affinché il ruttatore di Peroni medio potesse identificarsi nel suo idolo, pensando:« In fondo è come me…»
A tali schemi si sono sempre rifatti i fenomeni nazional-popolari come Maradona e Roberto Baggio, i cui sponsor non avevano ancora lo sfizio impellente di conquistare la galassia. Eppure, dal Fenomeno in poi, cioè da quando i campioni sono diventati prodotti d’alta ingegneria biochimica e l’internet ha cominciato a sostituire gli oratorii, questo modus operandi politically correct ha cominciato a vacillare. Si è aperto invece un commovente sipario fatto di provocazioni, scarpette variopinte, sbruffoneria e gel per capelli.
Per comodità scomporrò il continuum fluido di questa luccicante “Edenlandia” dell’arroganza in due macrocategorie: l’insieme “Cristiano” e l’insieme “Zlatan”. Nel primo gruppo rientrano tutti quei calciatori che il giorno della partita propongono un sopracciglio ad ala di gabbiano su un letto di abbronzatura agli ultravioletti e lo scarpino fluorescente che cambia colore in base all’angolo di rifrazione. Al mattino questi atleti si svegliano come faceva Patrick Bateman di American Psycho: maschera di ghiaccio sugli occhi per lenire quel leggero senso di gonfiore che attanaglia le orbite, per poi applicare un impacco all’eucalipto da spalmare sui pori già sorbi della lozione al cocco. L’arroganza a forma di six pack che Sergio Ramos spiattella sulle copertine delle riviste che leggo in metrò (già, in metrò…) mentre la mia tartaruga è rivolta dalla parte del guscio, ha una dimensione temporale e barocca, come una finta inutile di Neymar.
Nel secondo gruppo invece troviamo quegli atleti che fanno della tracotanza zotica un vessillo esistenziale. Sono i capitani dell’imbruttita. Giustificano l’intimidazione psicofisica che perpetrano nei confronti del mondo attraverso metafore ancestrali sui predatori della Savana. A differenza della categoria “Cristiano”, l’arroganza che informa questo insieme è radicata nella particolare superiorità ontologica e immanente che legittima maleducazione e ignoranza, in quanto strumenti divini che il caduco Homo Sapiens non saprebbe gestire. Solo accettando con entusiasmo “super omistico” questa verità si potrà apprezzare a pieno dichiarazioni del tipo «Sono più uomo io di tutti voi messi insieme» (Bobo Vieri). Se il manierismo portoghese della prima macrocategoria informa soprattutto i massimi livelli, la tracotanza svedese della seconda invade a macchia d’olio le categorie minori, dove i centravanti di paese si atteggiano davanti alle “vrenzole”. È in questo contesto che si possono apprezzare fenomeni parastatali paonazzi che a fine partita dichiarano:«Chiedete alle donne di Benevento se sono uomo.» (Antonio Vacca).
Ungaretti chi?